La musica contemporanea non si definisce più attraverso generi specifici; al contrario, è diventata un costante esperimento di contaminazioni sonore, spesso ridotte all’essenziale per adattarsi a un pubblico sempre più distratto e meno critico. Che si tratti di musica classica, punk, progressive o folk siciliano, ogni espressione sembra risentire delle pressioni di un ambiente dominato dalle mode fugaci e da dinamiche sociali superficiali.
Viviamo in un’epoca in cui la soglia di attenzione è ai minimi storici. Si stima che l’attenzione media sia di soli 8 secondi, con appena 40 secondi per i più attenti. Con tali premesse, come possiamo aspettarci che qualcuno riesca a concentrarsi su un’opera musicale che dura minuti, se non ore? La velocità con cui consumiamo contenuti ha inevitabilmente alterato il nostro rapporto con la musica: non c’è più tempo per studiare e riflettere, né per creare spazi in cui nutrire lo spirito, come accadeva in passato.
L’avvento della tecnologia, in particolare dell’intelligenza artificiale, ha ulteriormente trasformato il panorama musicale. Oggi l’IA influisce su ogni aspetto, dalla composizione agli arrangiamenti, dalla creazione di nuovi strumenti alla distribuzione musicale. Rischiamo di trovarci presto con “artisti” che non sono più veri musicisti, ma individui selezionati per il loro aspetto e il loro ruolo in un sistema controllato da piattaforme intelligenti. Queste piattaforme, attraverso algoritmi sofisticati, prevedono tendenze, anticipano desideri e creano prodotti perfettamente adattati ai gusti del momento.
Parallelamente, stiamo assistendo alla progressiva scomparsa della musica tradizionale. Melodie e ritmi che per secoli hanno caratterizzato l’identità culturale di intere comunità stanno svanendo, soffocati dall’omogeneità del mercato globale. La musica tradizionale, una volta tramandata oralmente o con dedizione generazionale, sopravvive ora solo in pochi progetti di archiviazione o viene celebrata in festival etnici occasionali.
Questa non è solo la perdita di stili musicali, ma anche degli strumenti che caratterizzano l’identità di un luogo, i modi di vivere, le emozioni, le storie e i valori condivisi. Strumenti come il maranzano, il tamburello e il friscalettu, ricchi di storia e significato, richiamano inevitabilmente a un colore siculo. Sebbene la tecnologia possa offrire strumenti per preservare queste tradizioni, tende a uniformare il gusto musicale, privilegiando l’immediatezza rispetto alla profondità. Le sonorità ancestrali, gli strumenti acustici fatti a mano e i canti rituali rischiano di essere dimenticati in un’epoca che premia la velocità.
Un tempo, creare musica era un’arte che richiedeva pazienza, impegno e dedizione. Non esistevano macchine a facilitare il processo: solo il musicista, il suo strumento e la sua mente. La distanza tra l’idea musicale e la sua realizzazione veniva colmata esclusivamente attraverso l’esercizio costante e la disciplina, un processo che non solo migliorava la tecnica, ma portava anche a una connessione profonda tra artista e opera.
Oggi, il tempo dedicato all’ascolto profondo e alla creazione paziente sembra essere svanito. La musica è diventata un prodotto di consumo rapido, destinato a scomparire altrettanto velocemente. Ma dobbiamo porci una domanda fondamentale: siamo ancora disposti a riscoprire il valore del tempo, della dedizione e della fatica necessarie per creare qualcosa di autentico?
Ci troviamo di fronte a una scelta importante. Possiamo lasciare che l’intelligenza artificiale continui a definire il suono del nostro futuro, oppure possiamo rivendicare il nostro spazio per creare e ascoltare in modo più consapevole. Abbiamo l’opportunità di esplorare la musica come un percorso evolutivo, un equilibrio tra ispirazione e realtà, che può ancora nutrire il nostro spirito, se solo siamo disposti a dedicarvi il giusto tempo.